Postfazione al libro di Andrea Schiavon, allegato a Tuttosport per i 20 anni dalla morte di Bartali.

“Con Coppi cominciò un altro ciclismo; rimase bellissimo ma cambiò”. Comincia così la sinossi, il riassuntino da copertina che spiega il senso del mio libro “Bartali l’ultimo eroico”. Un senso compiuto, perché quel ciclismo epico dopo il grande Gino si estinse, trasformandosi abbastanza rapidamente in altro sport. Prima era la fatica, loro uomini da tiro, come ebbe a dire Henri Pellissier dei concetti di Desgrange sul suo Tour: “Non vogliono il cavallo ma il mulo, non il muscolo ma il callo”. Concetto rude ma chiarissimo di cosa era un ciclismo che scelse le grandi salite pirenaiche ed alpine, i passi sopra le nuvole ed i duemila metri quando ancora non si aveva cognizione precisa di che strade li valicavano, i chilometraggi che imponevano partenze notturne, regole del gioco dettate tutte dalla scelta di renderlo magnifico e crudele, capace di estrarre da quel condensato di sofferenza solo gli eletti per corazza, per scorza ed anima.

Bartali era il campione migliore di quella disciplina, l’uomo di ferro che sembrò subito nato per il Tour. Intanto perché era scalatore alato, poi perché tetragono ad ogni sofferenza, alle avversità di qualsiasi clima, capace di recuperare mangiando e bevendo, vino compreso, come suoleva per uno sport che pescava i suoi migliori esponenti fra la plebe, in genere contadina.

Di lui disse Jacques Goddet che se li avesse potuti correre, meglio se si fossero disputati, i Tour de France compresi fra i suoi due trionfi del ‘38 e del ’48 li avrebbe vinti tutti. Di certo sarebbe partito sempre favorito. Ma Bartali non è stato solo il magnifico mulo alla Ottavio Bottecchia, l’uomo che seppe stupire solo in Francia ed in quei tratturi montani; ha vinto ovunque, anche in Italia e già prima che il tenue Giro azzardasse le Dolomiti.

E’ vero che per molti anni i grandi interpreti delle classiche, delle corse di un giorno, attori da velodromi e kermesse, vedevano nel Tour una corsa da forzati della strada; tanti, già divi e campionissimi, deviavano prima di affrontare il luglio francese, le sue calure, le torture che proponeva. Lo avrebbe fatto anche Fausto Coppi, come Girardengo e Binda, se solo avesse potuto. Ma Bartali, a 34 anni, era tornato a stupire tutti nella corsa mostro, ammansendo il moloch e proprio quando la Storia con la maiuscola lo aveva chiamato a tentare di risolvere gravi intrighi, a placare animi pronti alla guerra civile. Si scrisse che quella vittoria aveva fatto vendere in un mese 40 mila bici Legnano oltralpe; la Bianchi non poteva esimersi dal provare, con un Coppi che, in quel ’49, stava arrivando alla piena maturità ed al probabile sorpasso atletico sull’augusto rivale, 5 anni più vecchio. Quel Tour, quella doppietta del Fausto, meriterebbe un focus speciale, ben oltre ciò che si è finito per raccontare un po’ tutti. Di certo non cambia di una virgola il senso del confronto, il verdetto del duello sportivo del secolo che, altrettanto di certo, non ha avuto un perdente.

Comunque celebrare Bartali ai 20 anni dalla sua ultima fuga è anche riconoscergli di aver saputo vincere anche da purosangue, compresa una Sanremo in volata di gruppo ai 36 anni, è anche rendergli omaggio di quello che, lui in vita, mai si era saputo circa il suo eroico impegno per salvare vite umane in tempo di guerra. E’ riconoscere che la morte precoce del nemico\amico lo aveva lasciato orfano della sua metà sportiva ed aveva finito per oscurarlo, rendendoci un gigante assoluto del grande ciclismo al ruolo di brontolone, di chi sembrava essere stato costretto, da sittanto avversario, a recitare da comprimario.

Bartali e Coppi, parti inscindibili dello stesso mito, meritano il ruolo che la Storia ed il cuore della gente ha assegnato loro: quello di Padri della Repubblica Italiana.

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