Il primo, grande eroico del ciclismo italiano
Ha una storia ed una carriera assolutamente speciale, a partire dalla sua partecipazione con meriti alla Prima Guerra Mondiale. Nel ’15 viene fatto prigioniero e scappa travestendosi da soldato austriaco; l’anno dopo viene ancora catturato e riesce di nuovo a fuggire ma la sua impresa più clamorosa è del 4 novembre 1917, quando si libera gettandosi in un dirupo con la mitragliatrice in spalla e fingendosi morto, per poi rientrare tra le file italiane riportando anche la pesante arma. Questo atto gli vale la medaglia di bronzo al valor militare.
Bottecchia, però, diventa quasi per caso un enorme protagonista del Tour de France. E’ un buon corridore isolato, che partecipa alle corse grazie al sostegno dei suoi amici dopolavoristi; al suo primo Giro d’Italia, nel ’23, ha già 29 anni, vince la categoria dei ciclisti senza squadra, arrivando quinto assoluto e, grazie alla rinuncia di Brunero, ottiene l’invito a partecipare al Tour de France insieme al piemontese Santhià. Inizia la grande storia di un ciclista nato per il Tour, con le caratteristiche speciali di resistenza, grande capacità di sacrificio, coraggio e salute che servono per quella corsa di incredibili fatiche, salite impervie ed una marea di chilometri. Bottecchia è inserito nella squadra Automoto dei fratelli Pellissier, beniamini di Francia, ed aiuta Henri a vincere, a 32 anni, il suo unico Tour; arriva comunque secondo, vince una frazione e veste la maglia gialla per 6 tappe. Alla fine di quel suo primo Tour qualcuno scrive della sua fame atavica; cercava sempre di risparmiare ciò che gli passavano ai ristori domenicali per portarlo a casa. Si dice, invece, che al suo primo Tour, Bottecchia arrivi all’ultimo traguardo di Parigi tre chili più pesante di quando è partito, un grande corridore che si è formato per strada, tra enormi fatiche ed un formidabile appetito.Qualcuno adombra anche il sospetto che la giornata di grave crisi sia dovuta ad ordini di squadra e ad una borraccia inquinata.
Bottecchia si rifà clamorosamente nelle due edizioni successive: nel Tour del 1924 vince subito, i Pellissier si ritirano in lite col patron Desgrange e Ottavio finisce per portare la maglia gialla ininterrottamente fino a Parigi, vincendo anche 4 tappe totali e mostrando una superiorità disarmante in ogni grande salita. L’immagine di Bottecchia è forse la più emblematica di che cosa il Tour rappresenti; il veneto di Colle Umberto ha faccia eroica, con tutti gli spigoli e le magrezze forgiate dalla sofferenza. Più che uno sportivo è un uomo di fatica, di straordinaria, profonda capacità di lavoro, di incrollabili volontà e coraggio. Quelle doti che la Grande Boucle chiede sopra tutte le altre.
Le foto di Bottecchia stanno là a confermare, meglio di qualsiasi sintesi scritta, che per il Tour bisogna essere altro che ciclisti, saper andare oltre.
E’ al Tour del ’24 che Albert Londres viene inviato da “Le Petit Parisien”. E’ un giornalista digiuno di ciclismo, è reduce da un viaggio-reportage nelle colonie francesi d’oltremare, Guyana e dintorni; coglie, dopo poche tappe, “inquietanti paralleli tra la vita dei condannati ai lavori forzati e quella dei ciclisti”. Sarà lui a coniare il termine “Tour de souffrance”, un titolo che rende perfettamente l’epopea dei forzati della strada.
Di Bottecchia Londres fornisce questa istantanea: “Ecco un selvaggio che, sul bordo della strada, divora del caucciù con ferocia. E’ la maglia gialla Bottecchia. Ha forato. Bottecchia strappa la gomma coi denti”.
Ottavio si ripete con altrettanta superiorità anche l’anno successivo, nonostante Desgrange cerchi di introdurre elementi per limitare il dominio dell’italiano. Ma il campione veneto si conferma con 4 successi parziali, la consolidata superiorità in salita e una classifica finale in cui relega il secondo, il belga Lucien Buysse, ad oltre 50′. Terzo arriva quel Bartolomeo Aimo, amico e camerata al fronte di guerra, cui Ernest Hemingway, compagno d’armi divenuto grande ammiratore di quei ciclisti eroici, dedicherà un personaggio del suo romanzo “Addio alle armi”.
Giusto per offrire un dato statistico, quei Tour misurano 5386 km nel ’23, 5488 nel ’24, 5440 nel ’25. Quello del 1926, che Bottecchia non concluderà e vinto da Lucien Buysse, secondo dietro lui l’anno avanti a quasi un’ora, resta il più lungo della storia, con i suoi 5745 km.
La carriera ciclistica di Bottecchia, comunque straordinaria, finisce praticamente qui. Quell’inverno post ’25 Ottavio viene convinto ad andare a raccogliere ingaggi importanti in Argentina, un viaggio transatlantico che finirà per avere conseguenze notevoli sulla sua preparazione. In Italia da tempo gareggia col contagocce, atteso com’è sia da Girardengo che, poi, da Binda, i grandi che declinano le improbe fatiche francesi ma lo dominano nelle corse e riunioni al di qua delle Alpi. Varie vicende, anche fisiche, impediscono al grande Tavio di ripetersi fuori dal contesto del Tour e di quei 3 magnifici anni. Quello del 1926 lo vede alla partenza ancora da favorito ma capisce presto che nè le forze nè la squadra nè la fortuna sono in grado di sostenerlo come al solito e, come detto, è costretto al ritiro. E’, praticamente, il suo tramonto agonistico. Purtroppo per lui arriva anche, incredibilmente presto, la tragica morte, il 15 giugno 1927.