
Sono nato a Gaiole in Chianti, uno degli ultimi fatti in casa, il 4 marzo 1954.
Un bel po’ di tempo fa, anche se mi piace far riferimento all’età biologica, che dovrebbe essere più benevola. È successo in una casa da poveri, fronte strada e borro, quel torrente Massellone che un tempo si chiamò Clante (o Cluntni in etrusco). Ovvero, solo la mia, quella che scende dal Coltibuono, va a cercare l’Arbia in direzione di Siena e la trova al ponte delle Granchiaie, è la valle del Chianti, una decina di km in tutto; le altre sono applicazioni di un bel nome per estensione.
Sono nato con un difetto genetico: ero avanti con i tempi, una specie di fuso orario biologico che mi portò a leggere e scrivere poco dopo i 4 anni, senza che nessuno mi avesse insegnato. Un fuso orario che mi ha desincronizzato per la vita, facendomi perdere quasi tutti gli appuntamenti giusti. Ho fatto tardi di un mese anche per conoscere l’unica sorella, morta a 5 anni.
Questa stimmata da enfant prodige, figlio di contadini appena smessi come quasi tutti in paese, mi ha condannato a non deludere le attese e, fino alle medie, ci son riuscito alla grande. Poi le superiori, il Liceo Scientifico, e la pubertà, anch’essa precoce secondo mamma. Troppo presto, figlio di comunisti militanti nell’unico comune democristiano della provincia di Siena, sono stato avviato ai corsi di partito: le Frattocchie nell’estate della terza media credo siano un altro record di eccesso di anticipo.

Ho fatto di tutto, come si conveniva in un paesino
Mi è mancata la banda Filarmonica ma non la musica; iniziai a cantare con “Gli Uragani”, il complesso-istituzione del paese e poi, causa emigrazione in Germania del titolare, vi dovetti anche imparare il basso. A suonare, 35 anni spesi bene, divertendosi sempre, con una memoria di aneddoti che meriterebbero un libro a dispense.
Ho giocato a pallone, fatto bici, ma non avevo tanta salute, se ne venne a capo solo poi.
Quindi le carte, un maestro nel settore, e le palle , che sarebbero le nostre bocce toscane; mi ci sono fatto le spese da universitario perché erano giochi di un certo azzardo.
Sempre a Siena feci medicina senza vocazione, perché volevo una laurea pesante
Che non si equivocasse il mio impegno politico per desiderio di carriera nel ramo! Allora, pensate quali scrupoli mi erano stati insegnati… Nel frattempo, ovviamente, continuavo a far di tutto e di più, compreso l’impegno politico, che mi fu indirizzato, visti gli studi, verso la Sanità: prima i Consorzi, dopo il comitato di gestione dell’USL senese, la più grossa della Toscana.
Avevo aggiunto anche le donne; secondo mamma esageravo, secondo me si sarebbe potuto fare molto di meglio.
A 24 anni, all’inizio delle cliniche, dovetti staccare per malattia; mi fu diagnosticata una forma cronica di TBC, che era diventata cavitaria (un bel buco nel polmone) e che mi aveva minato tutta la gioventù. 6 mesi di sanatorio; al controllo dei 4 sembrava fosse ineludibile togliere un polmone, tutto o in parte. Due mesi dopo avvenne il miracolo della chiusura completa del buco e, sotto severe terapie e controlli, potei ritornare a casa.
Con gli studi in pausa, rincoglionito da cure da cavallo, ne uscii comunque guarito totale. Fortuna non da tutti, tanto più che la rifioritura fisica la sentii eccome. Ripresi un po’ tutto, per laurearmi nell’83 col voto di 96 (104 all’esame di Stato); per esserci arrivato a pezzi e bocconi facendo tante altre cose, credo di poter concorrere al titolo di medico che ha studiato, in quantità, di meno in Italia; parlo, ovviamente, di una laurea seria e comunque guadagnata, senza alcuna scorciatoia.
Quell’anno mi era appena nato Tommaso, da mamma Manuela, ex compagna di liceo. Ma se avviassi anche a raccontare le vicende intime faremmo tardi. Da medico era semi impossibile lavorare, nella provincia a più alto numero di colleghi per abitante: Siena aveva un’ottima facoltà di Medicina ed un gran bel territorio, buona parte dei laureati del Sud vi rimaneva.
Continuavo l’impegno nella USL ed a un certo momento il PCI mi candidò persino a quella futura presidenza. Ero stato delegato al Congresso Nazionale dell’EUR del ’75, quando i quadri li selezionavano ancora, giovane in straordinaria evidenza e se avessi cercato la carriera ne avevo una spianata, nella provincia più rossa d’Italia.

Ma, dopo la morte di Berlinguer, alcune cose, quasi tutte, cominciarono a cambiare.
Divenni meno convinto di un sacco di situazioni, compresa la vita familiare che continuavo a fare; m’ero sposato (mio malgrado) nell’81 e mi alternavo tra Gaiole e Monteroni d’Arbia, paese di mia moglie. Il lavoro di lei, insegnante di ginnastica, ci portò a ritornare a Gaiole, tutti in casa dei miei, per i quali ero rimasto, e soprattutto dovevo continuare a rimanere, il ragazzo-prodigio.
Di lavoro, oltre i vari incarichi USL compresa, aiutavo loro: mio padre era commerciante di mobili e gestivamo anche un distributore di benzina con rivendita di gas. Nessun aiuto, salvo un mio cugino col camion quando si andavano a consegnare i mobili.
Per ogni tipo di soldo serio dovevo passare dalla cassa, per ogni volta che facevo tardi la sera mai che discutessi con la moglie ma quasi sempre, in un modo o nell’altro, con i miei, soprattutto mamma.
Non ero vergine ma nel settore avevo ereditato il gene paterno, che avrebbe dovuto essere ben più comprensivo; mia moglie mi conosceva da prima liceo, non ci ho litigato mai sinora, alla soglie dei 60, ma dovetti scegliere di andarmene e di separarmi, praticamente già nel corso dell’86.
Pagai duramente tutto. Andai a fare quattro mezzi mestieri per mezzo stipendio, tra rimborsi e piccole indennità. Il medico, in totale, finii per esercitarlo 2 mesi (di guardie turistiche a Limone del Garda) e una settimana, a sostituire il condotto di Gaiole.

Ai 30 anni (nell’84) mi ero dovuto arrendere dal giocare a calcio in modo serio e comunque a livello bassissimo
Stavo molto meglio che da giovane ma mi rompevo ogni tipo di muscolo. Le cure avevano lasciato pegno e scelsi di andare a fare l’arbitro, ovviamente senza scatto alla risposta. Fu una delle cose che mi aiutò a sopravvivere, visto che è stata anche pratica che mi è riuscita benissimo (senza tema di smentite) in tutte le più infime categorie: peccato che avevo iniziato tardi e mi era preclusa ogni carriera. Dall’88 passai dall’AIA alla UISP, dalla Terza Categoria agli amatori in un salto carpiato della quaglia, complice una proposta irrinunciabile di rimborsi e l’offerta della presidenza della Lega Calcio di Siena.
Ero fuori da casa, vivevo solo ed andavo avanti tra il suonare, l’altra Lega delle Bocce Toscane, che avevo messo in piedi con notevoli risultati, e la politica, già poco convincente.
Periodo bohemienne, da raccontare meglio in seguito.
Quell’estate dell’88 fu pietra miliare; mio babbo si aggravò dei suoi malanni, io ero già fuori e reietto, iniziai a scrivere una serie di cose che poi diventarono un libro: “Ridatemi il PCI”
Uscì ad aprile ’89. Giovanni morì a settembre; per molti aspetti era stato un grande uomo, aveva la sesta elementare ed era, posso garantire nel contesto, tanta roba.
Mi diseredò a favore di mio figlio Tommaso; non poteva farlo, mi sarebbe spettata una legittima importante come figlio unico ma andai ad accettarla dal notaio. Mi fece la capacità di intendere e di volere perché rinunciavo a diversa roba. La casa, la mostra, i fondi; per i soldi, aveva provveduto mamma a far sparire tutto.
E “Ridatemi il PCI”, al di là delle prime attestazioni al gran contributo culturale (prefazione Michele Serra, firma grossa, sottotitolo “La grande crisi del partito nell’analisi e nell’elaborazione di un comunista non professionista”), mi tagliò rapido ogni possibilità di fare carriera politica.
Arrivarono i funzionari a far viso sorridente e, sostanzialmente, a dirmi “Ma cos’è questa crisi?” stile canzoncina anni 30, “ma quale bisogno avremo mai noi, Comunisti Italiani, di cambiare nome?”
Come si vede, era scattato il mio personale fuso orario.
Con i proventi del libro, circoscritto abbastanza presto da chi di dovere, ci andai a Cuba a cogliere la frutta
Lavoro volontario por la Revolución, Caymito, Brigada Josè Marti.
Intanto avevo cominciato a collaborare con “La Nazione” di Siena, ovviamente a partire dal calcio amatoriale, che stavo riportando in auge.
Avevo trovato da abitare in un granaio ammobiliato vicino Rosia. Una stanza con minuscoli bagno e cucinotto, di certo meno di 20 metri totali, 240 mila lire di affitto. C’era un unico divano letto single al centro dove spesso, fortunatamente, dormivamo in due. Il posto era comunque magnifico, un piccolo agglomerato di poderi contigui, un minuscolo borgo dove, quasi sempre, stavo da solo perché i vicini, affittuari da seconda casa, ne facevano uso sporadico.
La padrona del tutto era una pediatra attorno alla sessantina, scapola e stramba, anch’essa tipo da libro, ivi comprese le sue ricchezze e la loro provenienza.
Storia vuole che i suoi rapporti cordiali con chicchessia durassero meno di due mesi; forse gli piacque il personaggio, di certo il fatto che ero medico e che dei soldi non mi importasse niente, con prova provata. A me volle bene e senza che si fraintenda nel modo più assoluto.
Nel ’91 altra svolta di vita; una mattina presto mi chiamò per dirmi che sarebbe morta dopo 6 mesi.
Proprio così: “Dottorino, ieri, per un esame, mi hanno aperta e richiusa, so bene che si tratta del tumore al pancreas di mio padre; camperò sei mesi. Ne ho già parlato con mamma, se ne occupi lei visto che resta sola a 84 anni; andateci a vivere dopo la mia morte, vi ricompenserà”. Morì, in effetti, con precisione fatale. Andammo, io e la mia donna di quei tempi (altra storia tosta, maledetta da mamma ecc., difficile da raccontare tutta); con quella che a volte dormiva nel mezzo divano ci ritrovammo ad abitare in Piazza del Campo, assieme ad una gentile signora anziana, ignara di quasi tutto compreso il valore dei soldi. Credo fosse la casa più bella di Siena, molto grande, con tanto di terrazza su curva San Martino e diretta del Palio; avevamo una camera fianco Torre del Mangia, col pulsante sul comodino che scoperchiava il tetto ed apriva una copertura in plexiglas a mostrarci cielo, piccioni e Torre.

Finivano, in prospettiva, anche i problemi economici perché era chiaro che, se tutto andava liscio, la nostra signora, mai fatto un giorno d’ospedale in vita, serena, sana, tranquilla e molto contenta della nuova famiglia, ci avrebbe lasciati in condizione di non scialacquare ma di poter disporre di una rendita decente. Nel frattempo ci passava quelli che, per noi, erano già un bel po’ di soldi. Badanti, anche qui in anticipo, ma di una che non aveva bisogno di niente se non di qualche attenzione e di cordialità. Roba che ci veniva naturale a gratis anche con Ginino, il vecchietto che badava ai poderi in quelle case di campagna e che a soldi stava come noi.Di quel periodo, a mente quasi sgombra, sono le idee, comprese quelle cui non mi ero mai dedicato per le urgenze del bisogno e il florilegio di casini che avevo, sino ad allora, coltivati a mazzetti.
Ripresi a scrivere, che di leggere non avevo mai smesso.
Su “Mesesport”, mensile senese con cui avevo cominciato a collaborare, pubblicai il progetto “Parco Ciclistico del Chianti” e il ritorno al ciclismo del Barrino, passione mai sopita, lo farò coincidere col mio secondo racconto, un secondo tempo di vita che spero lunghissimo.